Storia dell’Etnopsichiatria
Principi teorici ed epistemologia
Nascita dell’Etnopsichiatria
Con la dinamica del colonialismo a cavallo fra il XIX ed il XX secolo i principali stati coloniali (Gran Bretagna e Francia) si ritrovarono a contatto con nuove popolazioni e culture extra-europee; questo incontro da un punto di vista scientifico, epistemologico e psicopatologico impose una profonda rilettura dei parametri di valutazione psichiatrica dell’individuo (che in Europa si stavano strutturando proprio in quel periodo); si aprirono così nuove domande:
- Cosa può essere considerato “normale o folle” in una data cultura?
- Quale può essere il concetto di persona all’interno di un universo culturale diverso dal nostro?
- Ed infine, davanti ad una persona di tutt’altra cultura che presenta uno stato di grande sofferenza mentale, come fare una valutazione che renda conto il più correttamente possibile di queste variabili culturali?
Va da sé che tali domande epistemologiche influenzano profondamente il successivo intervento terapeutico, con sviluppi di cui si parla in questo articolo sul relativismo culturale.
È così che nasce l’Etnopsichiatria, che dopo alcuni pionieristici studi di lingua inglese sull’argomento, si sviluppò prevalentemente in Francia, grazie all’opera dello Psichiatra franco-ungherese George Devereux, a partire dagli anni 60′: egli ha cominciato a costruire una teoria dell’umano che andava oltre la pretesa di universalità propria della psichiatria e della psicanalisi del tempo; la sua intuizione metodologica fu di conoscere la persona e costruirsene una rappresentazione propria in base a due chiavi di lettura ed analisi, la Psicoanalisi e l’Antropologia culturale.
Il pensiero di Devereux
Devereux pensava di poter vedere in atto dinamiche psichiche di matrice inconscia anche in individui di altra cultura, ma al tempo stesso era convinto che per cogliere tutto ciò in maniera più corretta e nitida possibile, era fondamentale avere un’approfondita conoscenza antropologica degli usi, costumi, lingua, tipo di relazioni umane e credenze della cultura in questione. E questo perché le due dimensioni vanno ad interagire e ad influenzarsi reciprocamente, in un mix importante da capire.
In quanto esseri umani siamo anche soggetti culturali, vi è nella nostra psiche una dimensione culturale imprescindibile, la cultura e la sua lingua ci donano un involucro psichico e culturale fin dai primi anni di vita, involucro sul quale intessiamo e costruiamo la nostra strutturazione mentale (Tobie Nathan, 1993). Già da ora possiamo dire che la psicologia trans-culturale si pone come obiettivo quello di sostenere ed aiutare la persona quando questo involucro culturale, che funge da contenitore psichico interno, si infrange, si rompe o viene messo in discussione, a causa del repentino cambiamento di vita legato al processo migratorio, all’abitare e vivere in un mondo diverso rispetto quello di provenienza.
La soggettività dell’osservatore
Ritornando a Devereux, bisogna aggiungere che egli si interessò profondamente al ridefinire gli oggetti di studio di queste materie ed osservazioni. Attraverso il concetto di contro-transfert e l’attenzione data alle “scienze del comportamento”, il suo pensiero mirava a prendere coscienza dell’elemento-soggettività dell’osservatore, il quale è un elemento comunque interno al campo di ricerca; non siamo passivi e neutri nell’osservazione dell’altro, ma ne influenziamo attivamente i risultati con la nostra soggettività ed i nostri filtri culturali:
“Così del resto deve essere: colui che studia il comportamento deve rivolgere l’analisi e la critica prima di tutto verso se stesso” (Devereux, 1967).
L’approccio complementarista dell’etnopsichiatria
Tale dinamica è insita ad ogni incontro con una persona di altra cultura, pur non potendo essere evitata essa può essere sfruttata attraverso lo strumento del contro-transfert. Per indagare il “fatto psicopatologico” in società diverse da quella euroamericana, il ricercatore può portare avanti la lettura psicologica fino a quando questa rende dal punto di vista di conoscenza, dopo di che si passa ad una lettura antropologica ed etnografica, assemblando il tutto insieme successivamente (approccio complementarista).
Inconscio idiosincratico
Più avanti, nei suoi Saggi di Etnopsichiatria generale (1970) egli arriverà a parlare di Inconscio idiosincratico, cioè quei contenuti che la persona ha rimosso in seguito eventi unici e specifici legati alla propria esistenza individuale, ed Inconscio etnico, dato dall’insieme dei contenuti inconsci che accomunano la maggior parte dei membri di una stessa cultura: ogni cultura infatti mette a disposizione dei suoi membri non solo i mezzi difensivi per rimuovere le pulsioni culturalmente distoniche, ma anche un modello ed insieme di sintomi, una classificazione nosografica, una spiegazione etiologica specifica ed una tecnica di cura codificata per quella cultura.
BIBLIOGRAFIA
- Georges Devereux, Dall’angoscia al metodo nelle scienze del comportamento, 1967
- Georges Devereux, Saggi di Etnopsichiatria generale, 1970
- Tobie Nathan, Principi di etnopsicoanalisi, 1993